martedì 13 dicembre 2016

Facile essere convenienti con i soldi degli altri

Il caso del giovane studente di Torino che rivendeva le merendine a prezzi più bassi delle macchinette installate presso il suo istituto e premiato dalla Fondazione Einaudi per il suo spirito imprenditoriale apre a qualche riflessione:

  1. è vero che il prezzo delle merendine erogate dalle macchinette dell'istituto che lui comprava in offerta nei supermercati era più alto rispetto al suo, e che tali prezzi, a suo dire in un'intervista radiofonica, erano più alti di quelli degli ospedali, ma qui si pone una questione che il ragazzino non considera: in quel "di più" del prezzo della merendina scolastica ci sono gli stipendi di chi le trasporta e le carica, della segretaria (ipotizzando una piccola impresa), gli ammortamenti, gli affitti, le bollette, le tasse, le concessioni, gli oneri e le spese per garantire i livelli di igiene imposti (giustamente) dalle autorità competenti;
  2. il ragazzotto comprava le merendine in offerta nelle varie catene di supermercati dove le imprese e la Grande Distribuzione fanno accordi al limite (e talvolta oltre) il dumping e per periodi brevi e ben definiti, mentre le imprese che distribuiscono le merendine nelle macchinette avranno pure dei prezzi vantaggiosi ma devono applicare i costi di cui sopra
  3. probabilmente (non ne ho certezza) le tariffe negli ospedali sono più basse di quelle della scuola perché ci saranno accordi con le ASL, e comunque il consumo di quelle merendine è più assimilabile ad un genere di conforto che ad uno sfizio di chi deve far passare un intervallo scolastico (chiunque abbia passato la notte o una giornata, o anche solo mezza con un parente in terapia sa cosa significa)
  4. il ragazzotto apostrofa su "La Stampa" gli studenti dell'istituto che hanno protestato contro il premio, che la Fondazione Einaudi gli ha elargito per il suo spirito imprenditoriale, con la parola "handicappati" mancando di rispetto sia a chi è disabile, usando la definizione come dispregiativo, sia ai suoi compagni (fra i quali è probabile che ci siano anche alcuni suoi -ormai- ex clienti).
Infine due parole sulla Fondazione Einaudi che avrà sicuramente dei meriti ma che, almeno in questo caso ha preso una cantonata solenne premiando non lo spirito imprenditoriale ma la concorrenza sleale e che ci si aspetterebbe adottasse misure più serie e ponderate verso chi realmente produce e distribuisce ricchezza.

Fare impresa significa assumersi responsabilità, onori e oneri che sono ben altra cosa che praticare un prezzo concorrenziale senza sopportare quei balzelli che scoraggiano, vessano e appesantiscono persone che hanno uno spirito imprenditoriale ben più alto di questo ragazzetto a cui nessuno, forse ha insegnato ad farsi carico delle proprie responsabilità.

Fare il giochetto del ragazzino di Torino sulle merendine, equivale ad essere convenienti sui soldi e sulla pelle di chi le regole le deve rispettare fino in fondo e deve portare il pane (non le merendine o la paghetta) a casa tutti i giorni.

venerdì 1 luglio 2016

Sono un consulente: so come sapere

Cosa definisce un buon consulente? Quali elementi aiutano a scegliere quello giusto? Quali caratteristiche deve possedere e cosa dobbiamo aspettarci da lui quando lo ingaggiamo?

Faccio da tanti anni questo lavoro in diversi campi: web marketing, privacy e comunicazione ed oltre ad aver interagito con diversi consulenti come cliente o come consulente in prima persona ho accumulato delle piccole esperienze che oggi intendo sintetizzare in cinque punti che, a prima vista, potrebbero sembrare ovvie ma che, alla resa dei conti, ci dimentichiamo sovente.

  1. Equilibrista: un buon consulente è pagato per fare quello che serve al cliente, non quello che piace a costui. Spesso il committente non ha le idee chiare, o meglio "crede" di averle (il che è peggio) ma sono inesatte, incomplete o fuorvianti, cioè poco inerenti al tema o mal o poco centrate. Il compito del consulente non è quello di svalutare le convinzioni del cliente ma di "avvicinarle" se e quando possibile alla vera essenza del servizio. Quanto più ci riuscirà, tanto più sarà gradito al committente e avrà maggiori possibilità di rinnovare la prestazione.
  2. Competente: appare logico, altrimenti che consulente sarebbe? Ma la competenza in realtà è un concetto troppo ampio per essere liquidato da una parola. Qualunque attività necessiti di consulenza, comporta una complessità intrinseca (altrimenti non servirebbe un consulente), ma questo significa che la specializzazione riguarda alcune aree spcifiche ma non tutta la materia. Un consulente che operi a trecentosessanta gradi difficilmente sarà pienamente competente in ciascun comparto del suo settore, quindi il buon consulente è uno specialista in alcuni campi e competente in altri nei quali, a richiesta, può condurre approfondimenti.
  3. Onesto: se Socrate diceva "so di non sapere", un buon consulente dice "so come sapere". Non è un gioco di parole, è un atto di onestà che eleva chi lo esprime: io sono un consulente privacy, ho curato gli interessi di diversi clienti operanti in molti settori, ma mai in campo assicurativo (ad esempio). Mi tiro indietro? No, lo dico al cliente ma allo stesso tempo mi premurò di garantirgli che entro un certo periodo, il più breve possibile, sarò in condizioni di seguirlo al meglio. E lo posso fare perché so cosa studiare, dove cercare le risorse necessarie,  come interpretare le nuove informazioni che scopro e come adeguarle alla situazione specifica sapendo cosa lasciare fuori e cosa integrare. Per il cliente è una garanzia, poiché saprà di non avere a che fare con un "tuttologo" ma con un professionista leale, corretto, che ha le idee chiare e che non si approfitterà mai di lui.
  4. Attento: un bravo consulente è colui che sa ascoltare, che possiede empatia e capacità di collocare il proprio ruolo all'interno dell'azienda nell'interesse suo e di questa, preoccupandosi sempre di tutelare gli interessi del cliente in equilibrio col lavoro di colleghi con cui deve interagire. Si pensi al caso di due consulenti che operano per la stessa azienda di cui uno cura la preparazione alla certificazione ISO 9001 e l'altro la privacy, e che devono quindi integrare le proprie competenze per consentire il conseguimento della certificazione al cliente, ebbene dovranno sapersi parlare e rispettare i relativi ambiti, per non pregiudicare il cliente e quindi la propria sopravvivenza.
  5. Adeguato: ogni cliente ha delle caratteristiche e delle possibilità. Lo stesso lavoro condotto per due imprese diverse ha costi differenti poiché entrano in gioco responsabilità che variano a seconda delle specifiche delle due imprese. Molto difficilmente lo stesso lavoro è efficace per più imprese, ciascuna ha caratteristiche proprie e anche nel formulare la parcella bisogna tenerne conto in quanto ciascuna ditta ha esigenze che portano via più tempo, ha diversi tempi di rientro dall'investimento e obiettivi analoghi ma sempre differenti
Alla fine si tratta di sano e virtuoso uso del buon senso, si tratta di rispettare il proprio lavoro e sé stessi. Alla fine si tratta di dare stabilità al proprio futuro attraverso buone pratiche.

mercoledì 22 giugno 2016

Tempi acerbi

Chi ha i capelli bianchi e magari piuttosto radi come me, e qualche ruga sulla pelle sicuramente ricorderà l'Olivetti Quaderno, il primo vero netbook che sia stato messo in circolazione e che anticipò i moderni dispositivi che ben conosciamo. Risale al 1992, più o meno nello stesso periodo in cui nacque Simon il primo smartphone progettato da IBM e commercializzato dalla BellSouth.

Entrambe queste macchine non ebbero la fortuna che meritavano (sebbene a modo loro, per l'epoca destarono un certo interesse) e perché si giungesse alle attuali devices che ne hanno sviluppato il concetto ci sono voluti due decenni.

Anche se ben concepite queste due novità erano in anticipo (troppo) sui tempi: i sistemi operativi non erano adeguati e pensati per "girare" in maniera ottimale su queste macchine, anche se Windows 3.1 era ben performante sui computer portatili dell'epoca.

C'erano fior di uffici marketing dietro questi prodotti ma non riuscirono a imporre ai mercati questi percorsi tecnologici come ha poi fatto, una decina di anni più tardi, Steve Jobs con l'iPhone o l'Asus EEpc.

Queste due esperienze insegnano che tenere le "antenne dritte" e saper fiutare i mercati è decisivo per collocare quello che si sta facendo. Proporre novità e idee rivoluzionarie comporta un'ottima preparazione e studio dei mercati e non è detto che, malgrado le attenzioni e le competenze messe in campo, si conseguano risultati soddisfacenti. Essere troppo avanti può produrre danni (essere innovativi è cosa buona e giusta, esserlo "troppo" no)

A livello di piccola impresa, l'attenzione ai mercati significa tenere sempre d'occhio le richieste dei clienti, cercare di capire come usano i prodotti che gli vendiamo, osservare cosa fa la concorrenza, analizzare la pubblicità che si rivolge ai nostri clienti: quali valori promuovono, a cosa danno priorità, giocano sulla novità o sul prezzo, che messaggi fanno passare...

Ogni mercato ha le sue caratteristiche ma i clienti sono sempre persone che hanno bisogni differenti e riconducibili a comportamenti generali che possono essere la fortuna o la sfortuna di un progetto.
Talvolta, per il bene dell'azienda, una buona idea è meglio che resti nel cassetto in attesa di tempi maturi, perché quelli acerbi ne decretano la morte prematura.

martedì 7 giugno 2016

Eccessivo intimo

Sugli slip (i miei) leggo Pinco Pallo Pinco Pallo Pinco Pallo (sì forse ce ne sono di più: non ho proprio un girovita da modello) e penso che quest'uomo (tal Pinco, detto Pallo - il nome è di fantasia per non fare pubblicità gratuita) debba essere un ottimista. E in fondo è un po' vero se i soldi li ha fatti (la qualità non si discute). Però quella scritta ("firma" è un po' troppo) è, a mio avviso, un tantino eccessiva.
Se quella ripetizione ossessiva serve a chi le indossa (a me) credo che sia inutile, se le porto (comprate o ricevute in regalo) so che sono fatte dalle sue fabbriche a meno che lui non creda che io sia "di memoria debole". Se serve ad esser letta da chi condivide la mia intimità è ottimista, perché si presume che io abbia di queste occasioni (cosa che purtroppo non è) e poi, diciamocelo, in quei momenti durano poco addosso, almeno per gli uomini (per le donne magari...). Se poi serve a richiamare l'attenzione sul suo marchio è del tutto superfluo: non vado certo a comprare un profumo solo perché porto le mutande firmate col nome di chi produce le une e l'altro.
Qual è allora il significato di quella ripetizione continua? Probabilmente, a seguito della moda dilagante dei pantaloni abbassati, quello che resta in evidenza anche da lontano è la griffe degli slip.
Insomma, un oggetto intimo non è più tale perché l'intimità è quella virtù che si perde nel momento in cui si manifesta.
Dunque divento da consumatore a "veicolo" del marchio (brand, per essere raffinati), perdo il mio status di "terminale", di "obiettivo" per assumere quello di "strumento", di "testimonial". Non più io, ma ciò che indosso.
Tengo su i pantaloni. E ben allacciati.

martedì 24 maggio 2016

Nascondiamo il sito!

"Il dominio in basso, perché nessun lo veda!"
Sembra questo l'ordine impartito a cui tutti si sottomettono quando si tratta di decorare il furgone aziendale.

Fateci caso quando siete nel traffico: su 10 furgoni che incrociate, quanti riportano il dominio del sito internet in alto scritto in caratteri grandi che siano visibili anche a tre o quattro vetture di distanza?
Quasi tutti hanno la scritta in basso, e si può capire per le vetture immediatamente vicine al furgone, ma perché non ripeterlo in alto su tutte e tre (o quattro, quando possibile) le facciate? In questo modo il dominio si vedrebbe da lontano, anche agli incroci in attesa del verde si leggerebbe chiaramente per tutta la lunghezza del veicolo.
Invece, chissà perché, si preferisce scriverlo soltanto in basso, a caratteri piccoli e leggibile solo da chi è in prossimità dell'automezzo.

E' un atteggiamento miope che è duro a morire, quello di ritenere il sito internet un fatto secondario, privo di importanza rispetto al marchio. Non si comprende invece che il sito comunica l'impresa (individuale o multinazionale che sia), è anzitutto il biglietto da visita della ditta, e che più esso è visitato e visibile, maggiori sono le possibilità di incremento del fatturato.

L'ideale, dato il minimo tempo di esposizione nel traffico, sarebbe l'alternanza cromatica per facilitarne la memorizzazione (es. www.nomeditta.it dove "www." e ".it" sono in nero, "nome" in verde o blu e "ditta" in rosso) meglio ancora se il dominio fosse l'unione di parole chiave del settore di appartenenza (ma questo è un tema ben più complesso che riguarda il SEO e non ha  nulla a che vedere col tema di questo post).

Comunicare non è solo una questione di campagne, posizionamenti, pubblicità, pubbliche relazioni, ma anche di minimalia come questa: fare in modo che chiunque, a qualunque distanza, nel traffico possa ricordarsi del dominio del sito anche se è distante tre o quatto vetture dietro il nostro furgone.
Magari il cliente potrebbe essere fermo in coda a qualche  vettura di distanza in tangenziale, e magari potrebbe annotarsi il dominio o fotografare il furgone che, anche se lontano, ha la scritta ben visibile, per poi visitare con comodo a casa il sito.

Piccole cose ma che possono dare grandi risultati.

martedì 17 maggio 2016

La saggezza e gli affari

"Lo stolto è colui che non sa uscire dai guai in cui si caccia, l'astuto è colui che sa come uscire dai guai in cui si caccia, il saggio non si caccia mai nei guai."
Questo proverbio orientale dice molte cose sull'essenza umana, sulle sue debolezze e virtù. Nel commercio dunque l'imprenditore deve essere astuto o saggio? Stolto no di certo poiché chiude ancor prima che apra e se lo fa dura poco o comunque finché conviene a qualcuno.
Dunque astuto sì. Quali sono i comportamenti astuti per un imprenditore?

  1. Attenzione alla concorrenza. Osservarla per carpirne i segreti del successo, i pregi, i limiti le debolezze e le cose che funzionano.
  2. Informazioni sui clienti. Prima di stipulare un contratto, fare ricerche ad ogni livello, dalle visure camerali alle informazioni sul web, il suo sito, come si presenta, cosa dice, cosa fa e come lo fa. Se nasconde informazioni sulla ditta, chiedersi perché, i profili aziendali e personali sui social media.
  3. Informazioni su sé stesso. Cosa si dice di lui? Della sua ditta? Provando ad accompagnare il suo nome, e quello dell'azienda, in una ricerca sui principali motori ad epiteti, ingiurie, ma anche complimenti e riconoscimenti, cosa troverebbe? In altre parole, sapere se e cosa si dice di quello che fa lui e la sua impresa, come parlano di lui le persone.
  4. Informazioni sul mercato. Chi fa cosa e dove? Come usano i clienti ciò che lui produce o commercializza? Cosa influisce sulle sue prospettive? Verso cosa orientarsi per diversificare?
  5. Abile gestione delle risorse umane. Conoscenza delle persone che lavorano per lui, capacità di motivarle, abilità nel prendere decisioni, creare gruppo in cui tutti si sentano parte e abbiano piacere di comunicarlo all'esterno.
  6. Attenzione alla gestione finanziaria. Conoscenza delle convenienze in ambito fiscale, capacità di delega nello scegliere i contabili e i fiscalisti, adottare sane politiche commerciali o affidarle a persone di comprovata capacità.
  7. Pubbliche relazioni. Frequentazioni degli eventi importanti senza dispersioni in manifestazioni marginali per il proprio business, sapersi relazionare con tutti e inserirsi nelle associazioni che hanno il giusto peso per la qualità delle persone e la coerenza del business.
A ben guardare, si direbbe che sono più regole di buon senso che di astuzia.
Ma in realtà la vera astuzia è avere buon senso.

E il saggio? 
No, lui non si caccia mai nei guai. Non è un imprenditore. :)

lunedì 9 maggio 2016

Imporsi o proporsi, questo è il dilemma

Cos'è il saper vendere?
La capacità di saper parlare? Saper cogliere le debolezze e le nevrosi del cliente? Saper ascoltare? Saper trovare i punti deboli dell'interlocutore? Saper tacere al momento giusto? Saper enfatizzare? Saper mentire? Saper inventare l'inesistente? Saper indorare la pillola? Saper giocare d'astuzia?

Per molti è tutto questo, ma per chi fa, o ha fatto, questo mestiere non è così. Non è un "saper fare", certo ci vuole tecnica, conoscenza di psicologia della vendita, spirito di osservazione ma saper vendere è anzitutto sapersi relazionare col prossimo, saper entrare in sintonia con le persone, sapersi mettere nei loro panni, poiché solo così si possono aiutare le persone a stare meglio e dunque a far stare meglio il venditore. La vendita è un'operazione a somma positiva, una di quelle azioni cioè in cui tutti hanno un guadagno: il cliente, il venditore, la casa mandante. E la dote che conta ha un nome ben preciso: empatia.

La vendita non è aggressione, non è raggiro ma è proposta, condivisione e relazione. Con un atto di forza mi impongo, e avrò anche fortuna per una o più volte ma non sempre, anzi il cliente mi vedrà come qualcuno da cui difendersi, qualcuno da rifuggire, qualcuno che rappresenta un ingombro da contenere, un'ostilità con cui fare i conti.

La vendita, quella efficace, quella costruttiva, quella che dura nel tempo invece è fatta di intesa, di soluzioni non di problemi, è fatta di successi condivisi, magari piccoli ma costanti. Il vero venditore non vince il cliente ma lo con-vince, vince insieme a lui, perché ciascuno dei due ha il suo vantaggio. La chiave di tutto questo è l'empatia, la capacità di relazionarsi con gli alti, e l'empatia è fatta di due grandi virtù: coerenza con sé stessi e trasparenza con gli altri.

La coerenza con sé stessi è vitale perché comporta autocontrollo e capacità di rinuncia per un bene maggiore in un futuro a medio termine, la trasparenza con gli altri è la base per infondere fiducia nel prossimo e far contare su di noi, rendendoci punti di riferimento per i nostri clienti.

Il mondo del business è fatto di equilibri precari in continua evoluzione, non vince chi fa i colpi grossi, ma chi fa buoni affari duraturi nel tempo.

martedì 3 maggio 2016

I primi venditori

Chi sono i primi venditori di un’azienda? Chi trasmette fiducia in ciò che essa produce? Chi esporta gli umori aziendali fuori dalle mura dell’atelier, del negozio, del laboratorio? I dipendenti

Commesse, segretarie, operai, meccanici, tecnici, impiegati, collaboratori: tutti coloro che varcano ogni giorno la soglia dell’impresa (piccola o grande che sia) e ogni sera tornano a casa con qualcosa in più o in meno: il piacere di lavorare. 
In tempi di crisi è difficile essere sempre positivi: spese, tasse, mercati in recessione, difficoltà nei pagamenti sono altrettanti motivi per portare nella propria ditta un muso lungo così. Ma quello che inneschiamo, senza rendercene conto, con un simile comportamento è il radicamento della negatività, di una visione delle cose amara, di un orizzonte breve. 

Nella sua biografia di Steve Jobs, Jay Elliot ricorda un concetto importantissimo: "Non dobbiamo mai dimenticare che il comportamento dei dipendenti che stanno a contatto con il pubblico influenza molto l'idea che i clienti si fanno della nostra azienda." 
C’è poco da fare, se nell’azienda portiamo malumore questo si rifletterà nel clima che aleggia negli uffici, ogni dipendente, dal più vicino al più lontano, porterà con sé parte di questo malumore e lo spargerà con i clienti, i fornitori, in famiglia, con gli amici, con le persone care che a loro volta si faranno l’idea che lavorare in quell’impresa, per quell’artigiano, in quella bottega, in quel negozio dev’essere davvero triste e un’azienda così non lavora bene.

Possiamo davvero credere che queste persone compreranno, consiglieranno, frequenteranno quella ditta? Possiamo davvero credere che varcare la soglia di un luogo di lavoro ove regna silenzio, austerità, tristezza invogli a continuare a lavorarci? Certo, in tempi difficili, pur di portare a casa uno stipendio è difficile che qualcuno si dimetta, ma lavorare con entusiasmo è un’altra cosa

Portare in azienda un buon clima significa anzitutto voler bene a sé stessi, condurre una ditta in cui i dipendenti, seppur consci dei momenti difficili, credono in quello che fanno, in cui una radio (a volume accettabile) suona musica che alleggerisce gli immancabili momenti pesanti, in cui il titolare non è temuto ma stimato e rispettato, significa aiutare a dare speranza, significa spargere intorno al proprio disegno imprenditoriale positività che prima o poi ritorna.

Esasperare chi collabora con noi, rendergli la vita amara, è solo un gesto stupido che, prima o poi, conduce al declino oppure riduce le possibilità di successo facendo in modo che l’azienda si accontenti di piccoli risultati quando potrebbe ottenerne di ottimi. 
Il dipendente è anzitutto una persona e, come tale, va rispettata, se sapientemente motivata può contribuire alle fortune dell’impresa. Se, al contrario, è umiliato e frustrato, darà il minimo per mantenere il posto ma non di più e questo, fuori dall’impresa, si vede e parecchio. 

Il coraggio dell’ottimismo è il vero segreto di un’impresa di successo.

mercoledì 27 aprile 2016

Pronto? Mica tanto!

Sì qualcuno li chiama ancora così: i telefonini. Oggi sono smartphone, ci consentono di navigare in Internet, controllare il nostro computer in ufficio, organizzare i nostri affari, scrivere documenti, gestire siti internet e blog, inviare e-mail e moltissimo altro. Ma alla fine c’è una cosa che fa, ed è la più importante: fare e ricevere telefonate.
Potrà sembrare strano ma questo ruolo è spesso gestito molto male. Vediamo alcuni casi:

  1. Quelli del telefono sconosciuto, o è il nostro (per goderci uno dei pochi diritti che ci rimangono decidiamo di nascondere il nostro numero di telefono) o è quello di un potenziale cliente. Sovente non si risponde “…io se non vedo il numero non rispondo…” Bravo! E se è un cliente potenziale? “…io non voglio che vedano il mio numero di cellulare: è personale…” Ottimo! E se chi chiami non risponde ai numeri sconosciuti? Ecco due ottimi modi per perdere possibili affari
  2. Quelli che non rispondono e questo sembra plausibile: siamo impegnati, il lavoro, le riunioni, momenti personali… “…se è importante richiama…” Vero! Ma se intanto telefona anche al concorrente che invece risponde al telefono o richiama appena può? Non richiamare chi ci ha cercati, se siamo imprenditori, è un altro ottimo sistema per perdere opportunità di fare affari
  3. Quelli che non rispondono mai, a differenza dei precedenti costoro tendenzialmente dimenticano il cellulare a casa, in auto o in negozio ma poi richiamano. Può succedere una volta, ma a questa categoria succede praticamente sempre “…sono tanto impegnato…” Bene! Pensa: lo è anche chi ti sta telefonando… Altro sistema di perdere opportunità. 
  4. Quelli che "...adesso non ho tempo, richiami..." Come se solo loro avessero i minuti contati… e poi quel "richiami". Richiami? Un potenziale cliente, un contatto d’affari, se ci ha cercati è cortesia richiamarlo, se non lo facciamo è scortesia e, si sa, gli affari non vanno mai a braccetto con la maleducazione, anche perché chi maltrattiamo oggi, non sappiamo se è chi conterà domani, almeno per noi. 
  5. Quelli che smaniano di finire la telefonata come se chi li chiama fosse un inutile impiccio: se hanno chiamato vuol dire che un motivo ce l’hanno “…io lo odio il telefonino…” Certo! Ma se lo usassi come si deve, renderebbe. Del resto anch'io detesto il cavolfiore. Ma fa bene! 
Parlare al telefono è un’arte. Se sorridiamo durante una conversazione si sente, se manifestiamo disponibilità anche con i clienti petulanti (mica nessuno è perfetto) li mettiamo in condizione di fare affari con noi. Certo, a volte sono solo perdite di tempo, ma non è con i comportamenti stigmatizzati in questo articolo che facciamo il nostro interesse.

Il telefonino può essere un ottimo alleato dell’imprenditore, ma se lo usiamo male può rivelarsi una severa fonte di guai. Il telefono portatile, qualunque siano le sue prestazioni è uno strumento ormai indispensabile. Quando non c’era si faceva lo stesso a meno perché non ce l’aveva nessuno, oggi ce l’hanno tutti e quindi fare senza è davvero difficile, specie se si è imprenditori.

mercoledì 13 aprile 2016

Chi è sazio sta fermo, chi ha fame si muove sempre

Tanti sono i significati della parola Sicurezzapubblica, personale, militare, lavorativa, sociale, familiare, dei dati, psicologica e, infine, ma soprattutto, commerciale. Di frequente capita di sentirmi dire "questa cosa funziona così, sono sicuro di quello che faccio per cui non cambio". 

Questo concetto di sicurezza, sebbene comprensibile, è poco condivisibile. La sua adozione sistematica conduce al radicamento in quello che si fa e al conseguente allontanamento dall’innovazione e sperimentazione oltre alla decadenza nel tempo. 

Ammettiamolo: sperimentare è rischioso, costa sia in termini economici (materiali sprecati, tempo dedicato) sia in termini psicologici (incertezza, delusioni, fatica). Eppure le grandi innovazioni nascono proprio da questi “dolori”, da questa capacità di provare, di sperimentare, di non accontentarsi di quel senso di sicurezza che offre ciò che si sa fare bene e non tradisce mai, perché una cosa è fondamentale per chi lavora in proprio, per chi crea, per chi fa artigianato in ogni settore: non ci si può mai accontentare, e un artigiano è qualcuno che ama il proprio lavoro (altrimenti farebbe altro). 

Un antico proverbio Zulu recita che “chi è sazio sta fermo, chi ha fame si muove sempre”; chi ha una partita Iva non può stare fermo, e non può farlo per tante ragioni: tanto per cominciare perché tutto è in movimento, i mercati (di qualunque dimensione, di qualunque area geografica, di qualsiasi continente) sono in perenne cambiamento (che non sempre significa evoluzione), la concorrenza è continuamente in agguato (c’è sempre qualcuno pronto a mettersi in gioco e per farlo deve creare cose nuove, anche minime, ma quanto basta a rosicchiarci una buona fetta di profitto), la politica cambia continuamente le regole del gioco rendendo difficile ciò che prima era facile e viceversa, la finanza capovolge le tendenze dei mercati, le congiunture producono comportamenti d’acquisto imprevedibili, noi stessi siamo continuamente stimolati e condizionati da nuove idee, proposte, esigenze. 

È impossibile restare fermi, è pericoloso ancorarsi alle certezze che ci hanno sostenuto finora. Anzi, la nostra vera sicurezza deve essere quella di essere sempre in cammino, sempre pronti ad abbandonare il certo per l’incerto sicuri che, com’è già capitato, ogni passo in avanti sarà prima o poi un successo. Del resto l’esperienza e il buon senso (dote fondamentale da usare sempre e in ogni dove) saranno sufficienti a non farci fare delle stupidaggini, potremo sbagliare qualcosa ma ben difficilmente faremo un fiasco totale.

Un’innovazione che non offre i risultati sperati da qualche parte ci ha comunque condotti, qualcosa ce lo ha lasciato. Sta a noi saperne cogliere e leggere le potenzialità e pensare a nuove sfide senza perdere di vista gli errori commessi. Come dice un antico adagio italiano: “sbagliando s’impara”. Migliorando.

martedì 5 aprile 2016

Più ne sai meno ti pago

Succede spesso, molto più frequentemente di quanto si pensi.
Il cliente richiede una consulenza su un servizio e chiede lo sconto. Lo fa in buona fede, perché è abituato così, ma non considera un parallelo impossibile da praticare: la competenza.

Facciamo un esempio: se mi rivolgo ad un piastrellista per farmi rifare i pavimenti di casa e chiedo lo sconto, l'artigiano per stare dentro i costi e trarre il proprio profitto dovrà risparmiare su qualcosa, magari mi fornirà piastrelle di seconda scelta sperando che tutto vada bene, ma alla fine lo sconto avrà avuto una sua logica e sarà stato "sfogato" da qualche parte.
Su una consulenza invece che può fare il consulente? Offrire una parte minore di consulenza? Può dare un "sapere minore" al cliente?
Un consulente viene pagato per quello che sa, non per quello che fa.
Se io ho determinate competenze, o le ho (e quindi le esercito) o non le ho. Non posso offrire una versione minore di quello che so, semplicemente perché essa non esiste.

La parcella tiene conto dei costi, fissi e variabili, del tempo dedicato al cliente, di quanto ci si è spesi in corsi, aggiornamenti, seminari, studio e quant'altro necessario per offrire al cliente la soluzione migliore.

Al massimo l'unico sconto plausibile è quello marginale sul tempo: se mi chiedi di fare gli aggiornamenti di sicurezza su un sito internet e creare gli articoli per il tuo blog, facendo le due cose nella stessa giornata e non in tempi diversi, posso metterci per ciascuna di esse un po' di meno e quel "po' di meno" posso scontarlo, ma nulla di più.

Non sono i documenti che vengono scritti, magari frutto di un copia-incolla di proprio altro materiale, che determinano il valore della consulenza svolta, ma la competenza necessaria che si è acquisita per fare in modo che essa sia realmente utile al cliente e gli permetta di ottenere il meglio al giusto costo.

martedì 29 marzo 2016

L'importanza della paura

"Vendere è come radersi, se non lo fai tutti i giorni diventi un barbone", è un proverbio che gira da decenni e decenni fra i venditori. In sostanza rappresenta il ruolo fondamentale, quello della vendita, all'interno di un'attività commerciale di qualsiasi dimensione (da quella individuale alla multinazionale).

Cosa spinge le persone a vendere? La risposta più ovvia potrebbe essere data dal desiderio di guadagnare, dalla necessità di vivere e sopravvivere procurandosi la "pagnotta". Ma se questa fosse la sola spiegazione, non solo sarebbe ben poca cosa, ma sarebbe anche incompleta e imprecisa.

La vendita è un atto del commercio che risponde a diverse istanze, dall'autostima alla soddisfazione di un bisogno, dal contatto empatico al piacere di convincere (parola intesa come insieme di "vincere-con") qualcuno a fare affari con noi per trarne un vantaggio che è vantaggio di tutti.

La vendita però è anche un atto certo, un atto che preserva dal futuro, è il presente che affranca dai timori di ciò che sarà domani. Potremmo dire, per usare le parole di Roberto Albenga, psicologo del lavoro, mio stimato amico e cliente che "La paura di star male domani, può aiutarci a star bene oggi".

Le imprese non vivono in eterno, molte di loro hanno il futuro segnato dagli errori di oggi e fra questi quello di non dare sufficiente attenzione al ruolo della vendita nell'esercizio dell'attività o darlo per scontato basandosi su assunti teorici o empirici, ricchi di errori e sottovalutazioni. 

La paura, quella positiva che produce comportamenti virtuosi è un insieme di "allarmi" che vanno ponderati e affrontati con lucidità e determinazione.
Ci sono tante paure che aiutano a vendere bene:
  1. paura di non sopravvivere
  2. paura di non cogliere le vere esigenze del cliente
  3. paura di essere nel posto sbagliato col prodotto/servizio sbagliato
  4. paura della concorrenza agguerrita
  5. paura del fallimento
Ci sono altrettante soluzioni che aiutano a trasformare la paura in successo:
  1. la paura di non sopravvivere la si affronta con la pianificazione delle vendite, organizzando argomentario e database;
  2. la paura di non cogliere le vere esigenze del cliente la si supera studiando attentamente il cliente prima della visita, il quartiere o il settore di appartenenza;
  3. la paura di essere nel posto sbagliato col prodotto/servizio sbagliato la si vince studiando preventivamente i prodotti/servizi che tratta o produce il cliente e analizzando le informazioni sul territorio e i mercati che lo riguardano;
  4. la paura della concorrenza agguerrita la si risolve studiando attentamente i prodotti e i servizi che essa propone, non possiamo pensare di avere solo noi un prodotto/servizio che sia la soluzione efficace per il cliente, ma possiamo pensare che, rispetto alla concorrenza, ciò che offriamo abbia qualcosa di diverso che può essere vantaggioso per il cliente, anche solo la nostra attenzione o cura in più potrebbe rappresentare l'arma vincente;
  5. la paura del fallimento è un fatto interiore su cui poco influisce l'esterno (ma molto come noi ci rappresentiamo la realtà e abbiamo preparato l'azione), e vale la pena ricordare il concetto secondo cui non esistono fallimenti ma solo risultati e quindi, se il fallimento non esiste, non abbiamo motivo di essere preoccupati di qualcosa che non c'è. Qualunque sia l'esito della vendita, non possiamo trascurare le cose utili che abbiamo imparato e che abbiamo portato nel caso specifico e quanto questo ci servirà per futuri successi.
In conclusione la paura della vendita in sé è sterile o addirittura negativa, ma diventa un punto di forza se ci permette di evitare insuccessi e ci spinge a migliorarci per ottenere nuove soddisfazioni.